Scusi, lei è maschile o femminile?
di Alessia Bellucci

La partecipazione al primo incontro delle Associazioni transgender d'Europa a Vienna ha costituito per me anche un'occasione per entrare nell'intimità degli austriaci. Non è solo per motivi di costi che ho preferito l'opzione dell'ospitalità in famiglia a quella, impeccabile ma formale e fredda, di un albergo. Per tre giorni andavo e venivo al meeting quotidianamente utilizzando i mezzi pubblici. Io abitavo infatti in una casa alla periferia sud-occidentale della città. Una zona silenziosissima che, pur essendo urbana, aveva le case già immerse nel bosco. Per prendere l'autobus dovevo ogni mattina percorrere un sentiero in terra battuta costeggiando un ruscello. Ed ero in città.

Tornando a casa la sera, dovevo percorrere l'ultimo tratto in autobus e avevo una gran paura di perdermi. L'autobus non è come la metropolitana, con tutte le fermate bene in evidenza, quindi chiesi a un gruppo di ragazzi (età sui 15-16 anni) informazioni sull'ubicazione della mia destinazione. Dopo aver avuto conferma di essere sulla strada giusta, mi tranquillizzai immergendomi in pensieri meno urgenti e ansiosi, quelli relativi al menu che mi aspettava la sera e che cominciavo a pregustare.

Ad un certo punto uno dei quattro mi chiese se poteva farmi una domanda “molto personale”, preavvertendomi che avrei potuto anche non rispondere. Io, che già avevo capito dove sarebbe (più o meno) andato a parare, lo incoraggiai a farmi la domanda che tanto gli stava a cuore. E lui la fece.

“Lei è un uomo o una donna?” Devo dire che i loro volti erano così sorridenti, sereni e non esprimevano alcun turbamento né ansia né tantomeno ironia o sarcasmo, che questa espressione di sana e ingenua curiosità mi aiutò a rispondere tranquillamente chiarendo ciò che sono. Seguirono altre domande (tra cui quella, d'obbligo, se sono “operata”) alle quali risposi puntualmente.

Il giorno dopo una contingenza prodottasi nel convegno mi dette modo di ripensare a questo rapido scambio di battute. Si parlava di linguaggio, di significati delle parole e a un certo punto una delegata disse che le dava molto fastidio l'eventualità che qualcuno potesse riferirsi a lei come a “una transessuale”. “Io sono una ‘persona transessuale' e non “una transessuale””. Transessuale come aggettivo e non come sostantivo. Espresso o sottinteso, purché il sostantivo sia sempre “persona”.

Ripensai alla domanda fattami dal ragazzo sull'autobus e che si espresse in questo modo: “Sind Sie maennlich oder weiblich?” (letteralmente: “Lei è maschile o femminile?”). Poi girai lo sguardo intorno a me. Guardando i partecipanti del convegno, c'era un assortimento di identità talmente vario e si percepiva in modo palpabile l'assenza di norme identitarie cui adeguarsi, che l'unica cosa che importava, in quel contesto, era che tutti eravamo persone e non uomini, non donne, non transessuali. Era perfettamente naturale e plausibile che io non riuscissi a capire se Jo, ad esempio, fosse un FtM o una MtF o un androgin*. Se avesse raggiunto la sua “meta” o se fosse ancora “in cammino”. Era una bella sensazione, mi sembrava di essere entrata in un altro mondo. Li la mia pancia (e non più il solo cervello che ragiona in astratto) cominciava a rendersi conto di come le convenzioni e le norme che racchiudono la persona in gabbie concettuali impediscano di discernere ciò che conta davvero dalla sua vernice e con ciò impediscano un incontro vero.

Sì, in quella sala, in quei tre giorni, maschile e femminile erano due attributi e non due sostantivi. Tornando a quel ragazzo dell'autobus, non so se questo modo di formulare la domanda (parlando di maschile e femminile invece che di uomo e donna) corrisponda a una struttura profonda della lingua tedesca e sia la traduzione operativa e grammaticale di una modalità di pensiero che vede uomini e donne come persone che, come possono essere alte, basse, sorridenti, felici, serene, tristi, furiose, gialle, blu, possono anche essere maschili o femminili, o un po' dell'una o dell'altra cosa.

Non avendo una conoscenza sufficientemente approfondita della lingua tedesca, non so dare una risposta al mistero di una presunta corrispondenza fra la grammatica e lo spirito di quel popolo, ma mi piace pensare che sia così o che possa essere stato così nella preistoria e che quindi sia possibile che torni a essere così in un futuro non lontano. Cancellare dalle menti umane quell'ossessione che le porta ad attribuire alla nozione di “genere” la funzione di un principio ordinatore naturale, saldamente ancorato alla natura e che investe della sua influenza le strutture sociali e quelle percettive dei singoli.

Sì, a Vienna ho visto che una società senza genere è possibile. E che il linguaggio gioca il suo ruolo, come nella costruzione e nella riproduzione degli stereotipi, così nella loro dissoluzione. Per dirla con Wittgenstein, “i confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo”.